La Svizzera ha fornito mercenari ai colonialisti.

La Confederazione non ha avuto colonie, eppure gli svizzeri hanno cooperato economicamente con le potenze coloniali e hanno approfittato anche loro dell’appropriazione militare di terre e risorse.

Intorno al 1800, studiosi europei hanno descritto gli svizzeri come “mezzi selvaggi”, evocando visite “a popoli non istruiti su coste pacifiche”. L’Europa intellettuale vedeva i confederati come persone che vivevano ancora allo stato naturale. Un’immagine distorta di cui gli svizzeri si sono appropriati: pubblicità di yogurt e offerte turistiche sono state associate a immagini esotiche, in cui gli svizzeri apparivano come “nobili selvaggi”. Questa immagine di sé si ritrova ancora in una certa retorica politica, secondo la quale la Svizzera minaccia di diventare una colonia dell’UE. Ma nella storia moderna, gli svizzeri sono stati raramente dalla parte dei colonizzati e più spesso dalla parte dei colonizzatori. È vero che la Svizzera come Stato nazionale non ha perseguito l’imperialismo, non ha sottomesso nessuna colonia e persino i tentativi di creare grandi organizzazioni economiche coloniali, come la Compagnia delle Indie Orientali, sono falliti. Ma il colonialismo comprende anche la convinzione che le popolazioni delle aree colonizzate fossero inferiori agli europei bianchi. Questa idea faceva parte anche della comprensione generale del mondo nella Svizzera del XIX secolo. Generazioni di svizzeri sono cresciuti con storie per bambini su “stupidi piccoli negri”, reportage su selvaggi ingenui e infantili e immagini pubblicitarie in cui le persone colonizzate apparivano al massimo come comparse decorative per prodotti coloniali. Questa eredità continua ad occupare il paese anche oggi.

Soldati svizzeri nelle colonie.
Il problema dei legami storici della Svizzera con il colonialismo va però ben oltre i dibattiti su prodotti e nomi che rievocano l’epoca coloniale. Va ricordato anche degli svizzeri hanno combattuto come soldati nelle colonie. Intorno al 1800, quando gli schiavi neri dell’isola di Saint Domingue – l’attuale Haiti – si sollevarono contro l’occupazione da parte dei colonialisti francesi, Napoleone fece combattere contro di loro 600 mercenari svizzeri, messi contrattualmente a disposizione della Francia dal governo elvetico, a pagamento. Ma questo non è stato un caso isolato. Anche dopo la fondazione dello Stato federale nel 1848, degli svizzeri hanno continuato a lottare – illegalmente – per le potenze coloniali. Una motivazione era lo stipendio da mercenario. Se non morivano di malattie tropicali nei primi mesi o non interrompevano il loro servizio precocemente, potevano contare su buone pensioni.

La Svizzera e la tratta degli schiavi.
Tuttavia, le grandi somme di denaro provenienti dalle colonie non andavano ai mercenari – che spesso provenivano da famiglie indigenti e servivano l’Olanda o la Francia anche per spirito di avventura – ma affluivano nel commercio di merci coloniali e nel traffico di persone. Una delle implicazioni più buie della Svizzera con il colonialismo globale è la tratta degli schiavi:
svizzeri e imprese elvetiche hanno tratto profitto dalla schiavitù come investitori e commercianti che organizzavano spedizioni di schiavi, compravano e vendevano persone e come proprietari di schiavi costretti a coltivare le piantagioni nelle colonie – chiamate spesso con orgoglio “colonie”. Fino al XIX secolo, il sistema della schiavitù funzionava nella regione atlantica come un commercio triangolare: navi cariche di merci di baratto salpavano verso le coste dell’Africa, dove scambiavano il loro carico contro schiavi. Queste persone sono state poi trasportate oltre Oceano. Da lì tornarono in Europa, carichi di prodotti coltivati o fabbricati da schiavi: zucchero, caffè e soprattutto cotone. Secondo Hans Fässlers, che da decenni studia la storia delle relazioni svizzere con la schiavitù, nel XVIII secolo la Svizzera importava più cotone dell’Inghilterra. Lo storico sottolinea inoltre che la tratta degli schiavi è stata un’industria chiave che ha reso possibile la produzione di molti beni. Per dirla senza mezzi termini: senza il cotone raccolto dagli schiavi, l’industrializzazione della produzione tessile svizzera sarebbe stata impossibile. Un ramo del settore tessile ha chiaramente beneficiato in modo diretto del commercio di schiavi: i produttori dei cosiddetti tessuti indiani. Questi sono stati prodotti per il mercato europeo, ma anche specificamente come mezzo di scambio per il commercio triangolare. Spesso i modelli sono stati progettati per soddisfare il gusto dei trafficanti di esseri umani che scambiavano beni di lusso con persone sulle coste africane. Una famiglia svizzera che produceva tali stoffe aveva pubblicato nel 1815 il seguente testo pubblicigtario: “La ditta Favre, Petitpierre & Cie attira l’attenzione degli armatori di navi schiaviste e coloniali sul fatto che produce e fornisce nelle sue officine, lavorando a pieno ritmo, tutte le merci necessarie per il commercio di baratto con i neri, come tessuti indiani e fazzoletti”.

Transizione al colonialismo senza schiavitù.
Dopo il divieto della tratta degli schiavi negli USA, l’industria tessile mondiale è scivolata in una crisi delle materie prime: i mercati del cotone in India sono tornati ad essere più attraenti. La società svizzera Volkart, che operava dall’India dal 1851, ha approfittato di questa lacuna, specializzandosi nel commercio di cotone grezzo in India. Una produzione controllata dagli inglesi: i contadini indiani erano costretti a produrre cotone al posto di generi alimentari. Grazie alla stretta collaborazione con gli inglesi, Volkart è stata presto in grado di rilevare un decimo di tutte le esportazioni di cotone indiano destinate alle fabbriche tessili in Europa. Un’altra azienda che è sopravvissuta alla crisi causata dalla fine della schiavitù è stata la Missione di Basilea, la comunità missionaria protestante locale. Sostenuta dalle stesse famiglie di Basilea che in precedenza avevano investito nella tratta degli schiavi, la missione ha aperto un nuovo modello di business: la conversione di “pagani” al cristianesimo in India. Di conseguenza, sono stati abbandonati dalle loro comunità e la Missione di Basilea ha potuto farli lavorare nelle loro tessiture. Un modello lodato da un missionario in questo modo intorno al 1860: “Se le persone del mondo pagano vogliono convertirsi a Cristo (…) le aiutiamo a trovare un rifugio intorno alle fattorie missionarie e un lavoro per guadagnarsi da vivere, che si tratti di agricoltura o di qualsiasi altro mestiere. Questo si chiama colonizzazione”. Il colonialismo comprende anche lo sfruttamento di rapporti di potere asimmetrici a vantaggio economico dei coloni. Tuttavia, lo Stato svizzero ha lasciato la ricerca di profitto nelle colonie interamente all’iniziativa privata. Le iniziative parlamentari che chiedevano un maggiore sostegno all’“emigrazione e al colonialismo” da parte dello Stato federale sono state respinte. Il Consiglio federale ha detto: in primo luogo, un Paese senza accesso al mare non può colonizzare e, in secondo luogo, la Confederazione si assumerebbe una responsabilità, di cui non sarebbe all’altezza. È interessante notare che queste proposte arrivarono negli anni Sessanta del XIX secolo dai radicali democratici, che sostenevano le riforme sociali e lottavano contro le classi medie al potere per sviluppare i diritti di democrazia diretta. I sostenitori democratici radicali del colonialismo si consideravano rappresentanti di coloro che fuggivano dalla povertà e dalla fame dalla Svizzera. La politica di emigrazione della Svizzera è cambiata nel XIX secolo: se all’inizio del secolo le colonie erano ancora viste come luoghi di accoglienza per persone che non potevano più sostenersi, in seguito divennero sempre più una base di reti globali: le colonie offrivano un terreno di prova per molti giovani mercanti. Costoro godevano degli stessi privilegi dei membri dei regimi coloniali europei – erano coloni senza patria imperialista. Nel 1861 l’economista tedesco Arwed Emminghaus ammirava questa strategia degli “estesi legami commerciali” della Svizzera e la vedeva come una variante della politica espansionistica imperiale delle potenze coloniali. “Non c’è bisogno di flotte costose, non c’è bisogno di costose amministrazioni, non c’è bisogno di guerre o di oppressione; le conquiste si fanno nel modo più pacifico e facile del mondo”.

Fonte: https://www.swissinfo.ch/ita/la-svizzera-e-il-colonialismo/45906016

Fort Willem sull’isola di Giava: qui sono finiti molti mercenari svizzeri partiti alla volta delle Indie orientali olandesi (litografia basata su un disegno originale di F.C Wilsen, 1849).

Nel XIX secolo, giovani svizzeri di origini modeste hanno svolto parte del lavoro sporco delle forze coloniali straniere in Asia e in Africa. Mentre il ruolo dei mercenari svizzeri in Europa è ben noto, alcuni documenti scoperti di recente raccontano delle malefatte che hanno commesso in terre lontane. Dopo una dura giornata di lavoro in fattoria, Thomas Suter, 19enne di un villaggio dell’Emmental, è pronto per andare alla taverna per bere un bicchiere. C’è una certa emozione nell’aria. Tutti parlano di Jürg Keller, il ragazzo che l’anno scorso ha lasciato il villaggio vicino per unirsi all’esercito coloniale olandese (Koninklijk Nederlandsch-Indisch Leger o KNIL). Di recente, Keller ha inviato una lettera alla sua famiglia da Lombok, nelle Indie orientali olandesi (l’attuale Indonesia), lamentandosi del caldo, del cibo e dei nativi. Tutto appare molto esotico ed emozionante agli occhi di Suter e degli altri frequentatori di taverne, abituati a una vita semplice lavorando nei campi e allevando bestiame. Alcuni giovani sperano segretamente di emulare Keller e di lasciare la valle addormentata, abbandonando le loro esistenze prevedibili per diventare dei mercenari in terre tropicali. Per questo basta aspettare che un reclutatore illegale – le autorità federali non sono entusiaste del fatto che degli svizzeri siano al soldo di potenze straniere – faccia un giro nella loro valle. Viaggerebbero lungo il fiume Reno fino ad Harderwijk, nei Paesi Bassi, dove ha sede l’ufficio di reclutamento della KNIL. Una volta sul posto, potrebbero alloggiare all’Hotel Helvetia o al Café Suisse, gestiti da ex mercenari svizzeri, i quali li potrebbero anche aiutare, in cambio di denaro, a espletare le formalità di reclutamento. Poi la partenza in nave per le Indie orientali olandesi, dove rimarrebbero per almeno sei anni.

Ritratto della recluta svizzera Josef Arnold Egloff a Harderwijk, nei Paesi Bassi, sede dell’esercito coloniale olandese (1889).

Scatole di documenti.
“A loro, le colonie apparivano come un’opportunità per salire la scala sociale e vivere il sogno di una vita borghese”, spiega a swissinfo.ch Philipp Krauer, ricercatore di storia moderna presso il Politecnico federale di Zurigo. Krauer e i suoi colleghi hanno recentemente messo le mani su 20 scatole di documenti dell’Archivio federale di Berna relativi alla vita mercenaria nell’esercito coloniale olandese, che finora non erano state aperte. Mentre il ruolo dei mercenari svizzeri in Europa è ben conosciuto, non esistono molte informazioni sulle loro azioni in terre esotiche. Nella seconda metà del XIX secolo, il reclutamento di mercenari non era più così in voga in Europa, ma i giovani svizzeri avevano sempre la possibilità di combattere altrove per conto delle potenze coloniali. Tra il 1815 e la Prima guerra mondiale, circa 8000 mercenari svizzeri sono entrati a fare parte dell’esercito coloniale olandese in Indonesia e a un certo punto rappresentavano il 10% delle truppe europee. Si stima inoltre che tra il 1830 e il 1960, 40’000 uomini si siano uniti alla Legione straniera francese partecipando a operazioni in Nord Africa e in Vietnam.

Lettera che un mercenario svizzero in Indonesia ha spedito alla sua famiglia.

Svizzera miserabile.
A metà del XIX secolo, rammenta Philipp Krauer, la Svizzera era tra le nazioni europee più povere. Fino alla fine degli anni 1880, era un Paese prevalentemente di emigrazione. All’epoca, il governo elvetico concedeva prestiti a persone che volevano emigrare negli Stati Uniti o in Sudamerica, per cui il fatto di permettere a giovani irrequieti di famiglie modeste di partire per una vita mercenaria era considerato una politica economicamente conveniente. “Molti politici e funzionari delle forze dell’ordine sapevano del reclutamento illegale di mercenari nel territorio svizzero, ma hanno chiuso un occhio. Ritenevano che fosse meglio che gli indesiderabili e i poveri fossero fuori dal Paese piuttosto che causare disordini civili”, indica Krauer. Tuttavia, non sono state solo le difficoltà economiche a spingere gli svizzeri ad unirsi agli eserciti coloniali. Molti sognavano una vita più avventurosa. “Ho letto una lettera di un mercenario a sua madre in cui dice che ogni volta che vedeva il treno passare nel suo villaggio, gli veniva questa voglia di andarsene. Non sopportava il pensiero di dover rimanere nel piccolo villaggio e di diventare un contadino come suo padre e suo nonno”, afferma Krauer. A questo si aggiungevano i racconti popolari che glorificavano la vita mercenaria di chi aveva osato fare il grande passo. Gottfried Keller, uno dei più famosi autori svizzeri della metà del XIX secolo, scrisse di un giovane ragazzo che lasciò la sua casa per unirsi alla Compagnia britannica delle Indie orientali in India e più tardi alla Legione straniera francese nel Nord Africa dove divenne colonnello, uccise un leone e si arricchì. Gli svizzeri erano benvenuti nell’esercito coloniale olandese poiché la maggior parte di loro aveva già svolto un addestramento militare di base. Erano anche considerati buoni tiratori. Una reputazione che è però peggiorata dopo l’ammutinamento svizzero del 1860 a Semarang a causa dell’insoddisfazione per le condizioni di lavoro in Indonesia.

Vita dura.
Arrivare in Indonesia era uno choc, soprattutto a causa del clima tropicale. Le reclute trascorrevano i primi tre mesi a fare addestramento e i contatti con gli europei al di fuori della caserma erano pochi. Malattie quali la malaria e il colera erano una grave minaccia, soprattutto fino ai progressi della medicina tropicale. “Prima che fosse disponibile il chinino nel 1850, la maggior parte di loro moriva entro i primi tre mesi a causa di malattie tropicali”, spiega Philipp Krauer. La vita di tutti i giorni era piuttosto noiosa. Dovevano fare molte esercitazioni e allenarsi per maneggiare il fucile. Dalle annotazioni sui diari risulta che non vedevano l’ora di lasciare la caserma per pattugliare le piantagioni. La loro presenza ha contribuito a creare un regime di paura tra la gente del posto e ha fatto sì che nelle piantagioni si lavorasse diligentemente. L’alimento di base era il riso e bevevano soprattutto gin olandese Jenever, siccome la birra doveva essere importata. Potevano avere concubine e persino mettere su famiglia con esse. Tuttavia, ai mercenari era richiesto di essere spietati al momento dovuto. Il conflitto più grande in cui sono stati coinvolti è stata la guerra di Aceh, durata quasi 40 anni (è iniziata nel 1873). In quel periodo, circa 8.000-10.000 soldati erano dispiegati nel nord di Sumatra. I mercenari svizzeri facevano anche parte di unità speciali che pattugliavano l’arcipelago e soggiogavano i leader locali attraverso tattiche di terra bruciata. Le rappresaglie erano particolarmente spietate dopo l’uccisione di loro compagni in un’imboscata o in battaglia. “Sono stati uccisi migliaia di nemici, le loro case e altre proprietà sono state date alle fiamme, il rajah di Lombok è stato catturato e la maggior parte dei leader rivali è stata trasportata verso un altro mondo”, si legge in una lettera del 1895 scritta dal mercenario Emil Häfeli al padre del suo defunto compatriota Egloff. I discendenti dei superstiti delle operazioni di queste unità speciali sull’isola indonesiana di Flores hanno raccontato agli antropologi di come sono sopravvissuti nelle grotte nascondendosi sotto i cadaveri dei loro parenti. I soldati dell’esercito coloniale non facevano alcuna distinzione tra civili e combattenti. “In Svizzera, esisteva già il Comitato internazionale della Croce Rossa e all’epoca si discuteva su come condurre guerre etiche. Ma in Indonesia, gli svizzeri – insieme ad altri europei e a gente del posto – commettevano massacri nel nord di Sumatra, Aceh, Flores e su altre isole”, rammenta Krauer.

Soldati della polizia militare coloniale olandese in posa accanto ai cadaveri degli abitanti del villaggio di Koeto Reh, sull’isola di Sumatra (1904).

Ritorno a casa.
I mercenari potevano tornare a casa solo dopo aver prestato servizio in Indonesia per almeno sei anni. Non potevano scappare poiché erano circondati dall’oceano. “Dovevano pagare 2.000 franchi, una somma enorme all’epoca, se volevano andarsene prima di aver completato i sei anni di servizio. Dovevano anche trovare un sostituto”, spiega lo storico. Non potevano mettere molto da parte, ma dopo dodici anni di servizio ricevevano una rendita annuale compresa tra i 200 e i 2000 franchi. In patria, non erano accolti come degli eroi siccome i mercenari avevano una cattiva reputazione tra la popolazione. Servire un altro Paese durante l’ondata di nazionalismo nel giovane Stato federale non era visto di buon occhio. C’era inoltre il timore che avrebbero portato in patria cattive abitudini, dal momento che erano visti come delle persone moralmente corrotte. Molti avevano subito un trauma a causa dei massacri a cui avevano partecipato e non sono riusciti a reintegrarsi nella società. Dovevano anche scontrarsi con chi si opponeva al loro rientro in Svizzera assieme a figli e concubine. A differenza dei mercanti e dei missionari svizzeri che hanno partecipato all’impresa coloniale, i mercenari non hanno lasciato grandi tracce sotto forma di libri o di musei riempiti di oggetti esotici. Hanno però avuto una forte influenza sull’atteggiamento svizzero nei confronti degli stranieri. “Le loro descrizioni degli indigeni nelle loro lettere hanno contribuito a diffondere gli stereotipi di altre razze nelle piccole valli e nei villaggi della Svizzera. Alcuni di questi stereotipi esistono ancora oggi”, rileva Krauer.

Fonte: https://www.swissinfo.ch/ita/al-soldo-di-eserciti-stranieri_come-i-mercenari-svizzeri-hanno-contribuito-a-diffondere-il-colonialismo/45857726

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